sabato 3 dicembre 2011

“Servizio Pubblico” fa saltare il sistema Auditel

Il programma condotto da Michele Santoro si conferma il primo talk d'informazione del giovedì e in assoluto la terza scelta dei telespettatori. Ma continuano i misteri sulla misurazione dei dati d'ascolto: se complessivamente è abbastanza affidabile si fatica a conteggiare le singole emittenti.


Stavolta l’Auditel ha comunicato l’ascolto di Servizio Pubblico senza ritardi. E la platea di Michele Santoro è praticamente la stessa di sette giorni fa: 2 milioni e 19 mila spettatori (7 mila in più), 8 per cento di share (+ 15 per cento in Rete), ancora la terza televisione italiana e il primo programma d’informazione del giovedì sera.

Il numero complessivo di utenti, che somma i risultati di Sky e di 26 emittenti locali, nasconde le debolezze strutturali di Auditel. La prima osservazione, che i centri media definiscono anomala, è la corsa a singhiozzo di Sky: una volta cresce, una volta scende, poi ricresce. Rispetto a sette giorni fa, Sky ha guadagnato 100mila telespettatori e le locali, di conseguenza, ne perdono altrettanti. Con una forma di federalismo televisivo: un giovedì c’è più pubblico al Sud e meno al Nord, e viceversa, e sempre il contrario.

PRENDIAMO le statistiche di ascolto di giovedì 1 dicembre, e confrontiamo la quinta puntata con la quarta: in Umbria e Toscana la trasmissione di Santoro raccoglie 25 mila utenti in più; in Calabria e Sicilia mancano 50 mila spettatori all’appello, ma in Friuli (Rttr) Servizio Pubblico va forte passando da 20 mila a 66 mila spettatori. Il destino di Telecupole (Torino) e A 3 (Venezia) è il più divertente e drammatico di tutti. Dopo le prime tre puntate, a velocità costante, Telecupole viaggiava oltre i 150 mila spettatori, addirittura 216 mila all’esordio il 3 novembre. Poi venerdì 25 novembre accade qualcosa di strano, Auditel fatica a decifrare il pubblico di Servizio Pubblico, la meravigliosa avventura di Telecupole finisce, e torna a 30 mila spettatori. Come se all’improvviso a Torino decidessero di non guardare Santoro. Le rilevazioni Auditel, però, quasi in contemporanea, premiano una piccola televisione di Venezia, chiamata A 3, che sfiora i 50 mila utenti. Teleroma 56, Extra tv e T 9, le tre laziali che trasmettono Servizio Pubblico, si scambiano migliaia di utenti come se fossero vasi comunicanti, ma insieme si attestano sempre intorno ai 200 mila utenti. Ecco, il limite di Auditel, una società di analisi costruita per pesare il pubblico generalista, di televisioni nazionali come Rai e Mediaset, e ultimamente La 7 e Sky. Anche perché nel Consiglio di amministrazione di Auditel, a parte le associazioni dei consumatori e la federazione nazionale degli editori, su 17 componenti, viale Mazzini ne conta 5, il Biscione 4 e Telecom Italia Media (La 7) 1.

IL CAMPIONE Auditel è formato da 5 mila e 500 famiglie, dunque basta che un utente campano preferisca Lira Tv di Salerno a Telecapri di Napoli (che manda in onda Santoro) e il sistema impazzisce. Un sistema che, per stessa ammissione di Auditel, prevede un margine di errore di 1, 5 punti di share per le televisioni nazionali, figuratevi per le locali. Il gruppo di 26 televisioni regionali, prima di ubriacarsi il giovedì sera con Santoro, totalizzava mezzo punto di share, adesso supera il 7 %. Guardate bene i grafici pubblicati qui in particolare la curva del quarto giovedì di Santoro, quello che mandò in crisi l’Auditel provocando un ritardo di 5 ore. Mentre per le prime tre serate le oscillazioni seguono gli interventi in studio o gli stacchi pubblicitari, le vignette di Vauro piuttosto che l’editoriale di Travaglio, la linea di giovedì 25 novembre somiglia a un encefalogramma piatto. Vuol dire che Auditel garantisce sul totale, giura di aver calibrato la cifra complessiva. E difatti, per calmare i centri media che aspettavano ore e ore, venerdì 25 novembre, Auditel denunciò le sue carenze: “Va ribadito che il risultato complessivo della trasmissione non ne risente, ma è l’assegnazione alla singola emittente che potrebbe risultare penalizzata”. E quindi più che una rilevazione sembra una stima.

Uno studio di settore applicato a una trasmissione fuori dai circuiti tradizionali che rischia di togliere telespettatori, e soprattutto pubblicità, ai principali clienti di Auditel. Quelli che siedono nel Consiglio di amministrazione.

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venerdì 2 dicembre 2011

Ristorante Senato, aumentano i prezzi, c’è la fuga dei politici


Negli ultimi tempi con la crisi che galoppa e la popolarità dell’antipolitica era balzato alla notorietà nazionale il menù del ristorante del Senato, che potete vedere nella foto qui sopra, prezzi modici e piatti ottimi. La situazione è drasticamente cambiata perchè i prezzi sono stati rapportati alla media dei ristoranti romani, diciamo che rispetto ai precedenti sono stati triplicati o qualcosa di molto simile. Il risultato di questa operazione? I senatore mangiano quasi tutti altrove e la società di gestione del ristorante ha chiesto la rescissione del contratto.
I senatori, ora, si fermano al ristorante interno solo per consumare i piatti più economici e rapidi, altrimenti escono ed a quanto pare si fiondano tutti o quasi verso il ristorante “Da Fortunato al Pantheon”, a cui tavoli si sono visti nelle ultime settimane, Anna Finocchiaro, Maurizio Gasparri, Francesco Rutelli e il presidente Renato Schifani. Un drastico cambio di tendenza che ha spinto la Gemeaz Cusin a richiedere la rescissione del contratto. I legali della società hanno redatto un documento in quattro pagine dove sono elencate le motivazioni della richiesta. Un documento molto interessante da leggere.
Prima dell’aumento dei prezzi il costo del pranzo era, “Il 13% del prezzo effettivo, anche per i pasti di tipo superiore o pregiato, il cui costo ricadeva, quasi per intero, sull’Amministrazione”. Ora con l’aumento dei prezzi la distribuzione tra tasca dei senatori e amministrazione è praticamente paritaria, quindi senza clienti il ristorante non ha più la convenienza per restare aperto, “Si è verificata una eccezionale diminuzione dell’attività, con una riduzione dell’affluenza di oltre il 50 per cento”. La riduzione dell’afflusso non è stata l’unica pecca, sono cambiate anche le abitudini alimentari, prima dell’aumento dei prezzi venivano ordinati soprattutto piatti pregiati, ora solo piatti economici. La società ha deciso di mettere in cassa integrazione ben 20 dipendenti. Il tutto mentre il Senato si appresta ad assumere altre sette persone, che hanno ottenuto il posto tramite concorso, e la Camera ha deciso di chiudere il suo ristorante.

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Quel piccolo villaggio di irriducibili... islandesi!


 Il fallimento delle banche non è necessariamente la fine del mondo. Dove esiste ancora una sovranità monetaria, le banche private sono una cosa, lo Stato un'altra. Gli unici che hanno avuto il coraggio di dirlo forte sono stati gli islandesi che, alla proposta di ripianare con l'austerity i debiti conseguenti al fallimento della banca Landsbanki, legato ai depositi IceSave, si sono opposti con ben due referendum. Nel primo, i "no" hanno superato addirittura il 93%. Percentuali bulgare. Significa che quando la gente può esprimersi, quel "fate presto!" del Sole24Ore e la sobrietà di quel Mario Monti del Corriere della Sera diventano cortesi ma irremovibili rifiuti. Per questo i banchieri hanno impedito a Papandreou di fare lo stesso referendum in Grecia e si sono affrettati a piazzare al suo posto Lucas Papademos, un collega di Monti. In Europa, come dice Farage, i referendum devono avere solo due risposte: "", e "Sì, ve ne prego!".
 Nei depositi IceSave avevano investito soprattutto olandesi e britannici. Quasi 4 miliardi di euro di perdite. Gli islandesi però si sono rifiutati di pagare, stabilendo il principio che la responsabilità non è dello Stato ma di una banca che, anche se nazionale, è privata esattamente come la Banca d'Italia.
Il Presidente islandese ha dichiarato che "la Costituzione islandese è basata sul principio fondamentale che il popolo è sovrano. E' responsabilità del presidente far sì che la volontà del popolo prevalga". In due parole, ecco spiegato il senso profondo della parola "referendum". Quello che alla Grecia è stato negato e che in Italia non c'è stato neppure bisogno di negare: la volontà popolare è stata di proposito ignorata, tra gli applausi delle scimmie ammaestrate e del popolo servo, sempre in cerca di un nuovo padrone.

 L'Islanda ha 320 mila abitanti. Qualcuno dice che sono troppo pochi e non fanno testo. Ma se riescono, così in pochi, ad opporsi ad interessi così grandi, cosa potrebbero fare sessanta milioni di persone tutte insieme? Immagino un mondo dove le piazze si riempiono e i banchieri, gli speculatori e finanzieri che fanno girare capitali inesistenti sulle roulette russe delle borse - superiori di un fattore 10 a quelli reali - indebitando i popoli, siano costretti a farsi da parte e a lasciare spazio a chi ha una nuova teoria sulla distribuzione della ricchezza, sull'etica del denaro e un rispetto diverso del concetto di sovranità popolare. Non possono essere un manipolo di tecnici pervertiti a imporre a 7 miliardi di persone un modello di società che premia solo se stessi.

 Perché l'Islanda lo ha capito? Perché il popolo di un'isola del nord Europa ha dimostrato di essere coeso e informato? Sarebbe interessante andare a scoprirlo. Certo è che in Islanda ogni 100 famiglie, 87 sono connesse a banda larga. E il Parlamento islandese ha ratificato, nel luglio 2010, una risoluzione che dà all'informazione online ospitata sull'isola lo status di immunità totale: chi querela un blogger non solo perde per legge, ma viene controquerelato dallo Stato automaticamente. La risoluzione si chiama IMMI (Icelandic Modern Media Initiative). Perchè il sale dell'informazione è il dibattito, il confronto tra posizioni diverse, anche estreme. Non la censura e la querela come arma di intimidazione. E tutto questo accadeva mentre noi perdevamo tempo con il DDL Intercettazioni, immersi nel medioevo della comunicazione. Sarà per questo che la nuova Costituzione islandese, appena riscritta, è stata partorita proprio sulla Rete, in maniera condivisa? Qui da noi è fantascienza. Ma certo, noi siamo italiani, siamo un popolo di navigatori, di inventori, di allenatori, mica siamo pescatori di balene, noi.

Ho tradotto per voi un articolo del 28 novembre scorso di Ambrose Evans-Pritchard, international business editor esperto di economia del Daily Telegraph.


ALLA FINE HA VINTO L'ISLANDA

Come una piccola isola è andata controcorrente, smentendo tutte le iatture degli economisti
L'OCSE è andata molto vicino a predire una depressione per l'Europa, a meno che i leader europei non riescano a inventarsi un "prestatore di ultima istanza" molto rapidamente, facendo in qualche modo credere al mondo che il fondo di salvataggio EFSF esista davvero.

Anche se il disastro finale sarà evitato, le previsioni di crescita dell'eurozona sono terribili. Italia, Portogallo e Grecia subiranno tutte una contrazione nel 2012 mentre Spagna, Francia, Olanda e Germania raschieranno il fondo del barile.

La disoccupazione raggiungerà il 18.5% in Grecia, il 22.9% in Spagna, il 14.1% in Irlanda e il 13.8% in Portogallo. Invece l'Islanda si distingue, con una crescita del 2.4% e una disoccupazione al 6,1%. Bene, benissimo!

Ecco i dati OCSE:
Islanda dati OCSE Claudio Messora byoblu Byoblu.com

 Insomma, la politica islandese di drastica svalutazione e il controllo sui capitali non ha dimostrato di essere quel disastro che molti avevano predetto. Il suo rifiuto di accettare quel fardello pesante pieno zeppo delle perdite delle banche private non ha trasformato il paese in un lebbrosario.
 L'Islanda ha tenuto insieme il suo tessuto sociale. Se l'Islanda fosse stata nell'eurozona, sarebbe stata costretta a perseguire le stesse politiche reazionarie di svalutazione interna e di deflazione del debito che oggi sono inflitte alle masse di disoccupati lungo tutto l'arco della depressione.

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martedì 29 novembre 2011

Crunch, crunch


C'è un mostro che si aggira per le banche. Ha chele potentissime in gradi di stritolare qualunque società. Crunch, crunch. Assorbe denaro come un magnete e non lo restituisce se non a carissimo prezzo. E' il Credit Crunch. Una parola che diventerà familiare come lo spread. Credit Crunch significa che non si fa credito a nessuno, che la liquidità in circolazione sta diventando come l'acqua nel deserto. Il fido bancario che copriva i costi di gestione delle aziende in attesa dei pagamenti da parte dei clienti è diventato un miraggio. L'azienda deve anticipare gli stipendi, l'Iva, le tasse sul presunto reddito del prossimo anno e ogni forma di commodity. Finché i soci o gli azionisti riescono a mettere mano al portafoglio regge, poi schianta.
Le banche hanno spesso più debiti che soldi e i debiti non si possono prestare. Si possono però mettere sul mercato sotto forma di bond. Il gioco funziona sino a quando i bond bancari venduti e rimborsati si equivalgono. Poi può saltare il banco. Le banche europee hanno venduto 413 miliardi di dollari di bond nel 2011. Hanno dovuto rimborsare 654 miliardi in scadenza. E' rimasto un cratere di 241 miliardi di dollari di mancanza di disponibilità (*). Le banche non sono più in grado di comprare titoli pubblici per salvare gli Stati e non riescono neppure a vendere i loro titoli.
Falliranno prima gli Stati o le banche? O entrambi? Nel frattempo muoiono le aziende a decine di migliaia per mancanza di ossigeno. Il debito aziendale è una catena di Sant'Antonio. La prima azienda della catena che va in asfissia finanziaria strangola la seconda che a sua volta strangola la terza e così via. Lo Stato chiede anticipi, le banche negano prestiti o li concedono a tassi usurai o ipotecando la azienda. Ma se muoiono le aziende chi pagherà i costi enormi della macchina dello Stato e gli stipendi dei bancari? Il debito non si mangia.
Negli scorsi anni sono stati concessi mutui a tasso variabile per le abitazioni anche al 90% del capitale. Moltissime famiglie che li hanno contratti non sono più in grado di pagarli. Le case vanno all'asta o alle banche. Chi abiterà queste case? Un'obbligazione bancaria, un titolo azionario? E gli sfrattati che hanno perso, oltre all'appartamento, la quota di capitale versata che fine faranno? Al Credit Crunch non si può reagire con la Taxation Crunch come si appresta a fare il Governo. Ogni organismo ha il suo punto di collasso e l'Itala ha già una forte tachicardia. E' necessaria una moratoria per i mutui delle prime case, l'abolizione immediata dell'anticipo dell'Iva e della tassazione sul reddito presunto delle aziende sull'anno successivo. L'Italia ha bisogno di respirare. Loro non molleranno mai (ma gli conviene?). Noi neppure.
(*) fonte Dealogic/Ft

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sabato 26 novembre 2011

Pannolini e mezzibusti del Tg1 in una convention surreale

Una finta edizione straordinaria del Tg1 condotta da Attilio Romita dedicata a pannolini e assorbenti della ditta Fater. Con tanto di interventi di Bush, Sarkozy e persino del Papa. Il tutto succede alla festa per i 50 anni della ditta di prodotti assorbenti

“Grande entusiasmo e scene di giubilo a Pescara per il cinquantesimo anno di attività di Fater Spa”. Con queste parole si apre l’edizione straordinaria del Tg1 proiettata a giugno 2008 in occasione delle celebrazioni per il compleanno di Fater, azienda abruzzese di prodotti assorbenti che racchiude marchi come Tampax, Pampers e Tempo. La scena è surreale: sul palco della convention c’è Franco Di Mare, conduttore di Unomattina e volto noto del piccolo schermo, che a un certo punto viene interrotto da un contributo mandato dalla regia. Annuncia: “Un’edizione straordinaria del Tg1” e in sottofondo si sente già la sigla del giornale della rete ammiraglia della Rai. Si spengono le luci in sala e sullo schermo appare il celebre conduttore Attilio Romita che apre il finto telegiornale interamente dedicato ai successi della ditta abruzzese. O meglio ai suoi prodotti: pannolini e assorbenti. Una pubblicità non occulta ma palese, che lo scorso anno è costata ai due giornalisti una sanzione da parte dell’ordine regionale del Lazio.

Il filmato della performance – imbarazzante a livello professionale e deontologico – finora non era mai stato diffuso. E anzi Attilio Romita aveva addirittura negato di averlo mai registrato, mentre Di Mare aveva sostenuto che il video era stato trasmesso a sua insaputa durante la convention della Fater. Adesso, però, il fattoquotidiano.it pubblica in esclusiva le immagini.



In uno studio del tutto simile a quello del Tg1, Romita, dopo le immagini della folla in delirio per pannolini e assorbenti, comincia a lanciare i servizi. Il primo è dedicato alle reazioni internazionali, ed ecco Bush, Sarkozy e Putin intenti a santificare i prodotti portentosi dell’azienda di Pescara: se il presidente Usa in una conferenza annuncia fiero che “dietro ogni grande uomo c’è sempre un grande pannolone”, la risposta di Putin non è da meno: “Tutta la Russia vi ringrazia”. A quel punto il giornalista riprende la linea in studio per annunciare il prossimo servizio dedicato “ad alcuni abituali consumatori dei prodotti Fater”. Ed ecco Romano Prodi, Antonio Di Pietro, Rosy Bindi e Maurizio Gasparri che rispondono a delle domande con la presidente del Pd che, suo malgrado, si trova a sottolineare come i pannolini “siano una garanzia per il cambiamento”. Inutile dire che i vari personaggi sono inciampati nel finto giornale di Romita a loro insaputa.

Se per gli “ospiti” internazionali ci pensa un finto doppiaggio a fargli pronunciare i claim scritti dai pubblicitari della Fater, per i politici di casa nostra il gioco è differente: le loro dichiarazioni sono state rimaneggiate da un abile montatore. Come nel servizio successivo, dove le telecamere del finto Tg1 si spingono addirittura Oltretevere per riprendere il saluto del Papa ai 1000 dipendenti dell’azienda. “Uomini e donne da cui dipende una qualità autenticamente umana di una convivenza”, dice Benedetto XVI alla folla festante in piazza San Pietro in occasione dell’Angelus. Mentre scorrono le immagini dei servizi lanciati dal conduttore, nella parte bassa dello schermo, come in un vero telegiornale, scorrono le ultim’ora, anche in questo caso improntate a un mix di marketing e goliardia. Sotto il faccione di Romita appaiono annunci come “si chiude oggi la maxi-inchiesta ‘Sederini asciutti’. Il presidente della Pampers confessa: ‘Siamo stati noi’”.

La messinscena dura poco più di sette minuti e il pubblico in sala sembra apprezzare. Chi invece non l’ha presa per niente bene sono i consiglieri dell’Ordine dei Giornalisti del Lazio che dopo un lungo procedimento disciplinare hanno comminato la censura ai due dipendenti Rai coinvolti. Sì, perché ai giornalisti professionisti è vietato fare pubblicità. “I cittadini hanno il diritto di ricevere un’informazione corretta, sempre distinta dal messaggio pubblicitario e non lesiva degli interessi dei singoli”, recita la Carta dei doveri dei cronisti. Una norma deontologica probabilmente nota anche a un dipendente che ha ripreso la kermesse con il suo telefonino inviando le immagini all’Ordine dei Giornalisti. Lo stesso video che oggi, in forma anonima, è arrivato nella redazione Internet del Fatto Quotidiano. Fonti qualificate interne all’Ordine regionale del Lazio, dove i due giornalisti sono iscritti, raccontano che ai due è stata inflitta una pena lieve, come la censura, che non ha particolari ricadute sulla vita professionale dei due. Se Romita ha deciso di non impugnare la decisione del consiglio laziale, Di Mare ha fatto ricorso all’Ordine nazionale perdendo anche quello. Contattati telefonicamente il presidente dell’Ordine Nazionale, Enzo Iacopino, e dell’Ordine regionale del Lazio, Bruno Tucci, hanno preferito non commentare.

Il Fatto si era già occupato della vicenda il 4 dicembre del 2010. In quella occasione Di Mare confermava la proiezione del video durante la kermesse sostenendo però che fosse stata fatta a sua insaputa. “Ci sono rimasto male perché anche io non ne sapevo nulla. Mi sono subito scusato col pubblico”, diceva il conduttore di Unomattina. Affermazioni che trovano una secca smentita nelle immagini che documentano il tutto. Ancora più articolata la posizione di Romita: quando è stato contattato dal Fatto, un anno fa circa, sosteneva: “La Fater non l’ho mai sentita nominare, non ho registrato quel video e in questo tango non ci voglio entrare”. Difficile credergli ora che le immagini mostrano la sua faccia mentre annuncia fiero che “In due famiglie su tre c’è almeno un prodotto Fater”. Ricontattato dal fattoquotidiano.it, non vuole rilasciare nessuna dichiarazione. Si limita a dire che “la vicenda e ampiamente chiusa e rappresenta un’amabile cattiveria e una grave persecuzione contro la sua persona”. Al tentativo di un’ulteriore domanda sul perché avesse dichiarato il falso l’anno prima, lui, prima di riattaccare il telefono in faccia, minaccia querele. Pare di vederlo ancora quando con trasporto annuncia che i pannoloni Fater hanno “ridato dignità a una quota significativa della popolazione”.

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venerdì 25 novembre 2011

Il ristorante di Montecitorio diventa self-service, la Casta stringe la cinghia.

Il collegio dei questori sta per dare il via libera alla trasformazione del ristorante della Camera in un self-service, permettendo notevoli risparmi. In estate, lo scandalo sui prezzi privilegiati per la Casta: filetto a meno di 5€ per le convenzioni con il Parlamento.

 

La Casta perde i propri privilegi e finanche il famigerato ristorante della Camera, che tanta indignazione aveva sollevato nell’opinione pubblica dopo la pubblicazione dei suoi menù a prezzi stracciati per i soli deputati, subirà una forte ristrutturazione: dopo i rincari delle pietanze prelibate, come salmone e filetto, arriva il taglio del personale. Il ristorante diventerà un self-service come qualsiasi mensa aziendale. La notizia arriva proprio il giorno in cui il Senato ha approvato il taglio dei vitalizi per i parlamentari a partire dalla prossima legislatura e c’è chi già parla di fine della Casta.
Il ristorante della Camera è riservato a parlamentari, in carica e non in carica, dirigenti e giornalisti. Nella settimana ventura, il collegio dei questori darà il via libera alla trasformazione in self-service, che avrà luogo soltanto dopo l’esame dell’ufficio di presidenza. Il risparmio per le casse pubbliche deriverebbe dal taglio del personale del ristorante, in particolare camerieri e assistenti ai tavoli dipendenti diretti di Montecitorio, che potrebbero essere destinati ad altre funzioni.
Inoltre, si potranno ottimizzare i costi di acquisto coordinandoli con l’altro ristorante self-service a disposizione dei lavoratori della pubblica amministrazione. Unificate le cucine, unificati i bandi per gli appalti del servizio 2012, per un risparmio complessivo di qualche centinaia di migliaia di euro all’anno.
Anche i prezzi del ristorante del Senato e quelli della buvette sono aumentati, equiparandosi ai canoni normali. Ma ricordiamo che in estate, quando sul blog di Spider TrumanI Segreti della Casta di Montecitorio – venne pubblicato il menù con i prezzi stracciati per i parlamentari, il moto di indignazione fu fortissimo: bistecche di manzo a 2,60€; lombata di vitella a poco più di 5€ e frutta di stagione a 0,76€. Prezzi del genere non si vedevano nemmeno nei fast-food della stazione Termini, figuriamoci nella corte aurea tra Montecitorio e Palazzo Madama.


I vitalizi e il resto: il Parlamento costa 1,7 miliardi all’anno.

Ieri il Senato ha deciso: dalla prossima legislatura (in questa non era possibile perché avrebbe intaccato i «diritti acquisiti») sarà rivisto il contestatissimo sistema dei vitalizi. Nel rispetto della spending review saranno messi in cantiere anche nuovi tagli ai costi di funzionamento, finora salatissimi. Il Senato costa infatti 600 milioni all’anno e la Camera supera il miliardo di euro. Guarda qui le voci di spesa nell’infografica realizzata da Linkiesta in esclusiva per Yahoo.


mercoledì 9 novembre 2011

Berlusconi trascina l’Italia alla rovina


El País
Il primo ministro, incapace di intraprendere le riforme indispensabili a causa del veto degli alleati della Lega Nord, rimane aggrappato al potere per mantenere l’immunità
Al momento della chiusura di questa edizione, incredibilmente, Silvio Berlusconi era ancora al potere. Il giorno in cui, probabilmente vicino, il primo ministro italiano non avrà altra scelta che fare il passo indietro che tanti gli chiedono, non ci sarà né la voglia né la forza per festeggiare. La grande crisi che attraversa l’Europa ha lasciato l’Italia nuda davanti allo specchio. Finora quello che l’opinione pubblica conosceva di Berlusconi erano i suoi comportamenti inappropriati, le sue tristi follie sessuali, i suoi problemi con la giustizia. Una cortina di fumo perfetta per nascondere un’amministrazione terribile, un paese con i conti in rosso, una classe politica screditata, un autentico disastro avvolto nella bella confezione del paesaggio, degli abitanti e della storia.
Ora a causa della grande crisi i riflettori di tutto il mondo sono puntati verso questo angolo della vecchia Europa. Al di là della cortina di fumo è comparsa in prima istanza la redditizia agonia di Berlusconi. Il Cavaliere, il cui modo di governare si è sempre basato su favori, sa meglio di chiunque altro che è politicamente morto, che il suo futuro nella vita pubblica è ormai impossibile. La sua testardaggine a continuare ad ogni costo come capo del governo ha una sola spiegazione: l’immunità. Finché continua arroccato all’albero del potere, i giudici continueranno a ululare intorno a lui, ma non potranno raggiungerlo. I processi andranno in prescrizione. Berlusconi la farà franca. Ma quanto costa tutto ciò? Questa è la seconda questione.
Una questione che, a sua volta, deve essere divisa in due. Quanto costa a Berlusconi e quanto all’Italia. Il primo non ha molta importanza. In Italia tutti danno per scontato e accettano il fatto che il patrimonio di uno degli uomini più ricchi d’Europa – secondo la rivista Forbes le sue imprese sono valutate nove miliardi di dollari – è stato fondamentale per la sua ascesa al potere e soprattutto per la sua permanenza. La questione fondamentale pertanto è quanto costa al paese.
Forse non c’è miglior esempio che la questione delle pensioni. Se si incrociano i dati dell’età di pensionamento e dell’aspettativa di vita, l’Italia sarebbe il paese al mondo dove si vive più anni prendendo la pensione – 22,2 anni per gli uomini e 26,9 per le donne -. Questo vale soprattutto per un tipo di pensione chiamata di anzianità. Ha diritto a questo sussidio chi ha pagato i contributi per 40 anni o chi somma 97 anni tra gli anni lavorati e la propria età . Il risultato è che piu di 130.000 persone sono andate in pensione nel 2010 con meno di 60 anni, quasi quattro milioni di italiani prendono attualmente la pensione, e lo Stato spende ogni anno 73 miliardi di euro.
Come dicono i telegiornali – lo dicono Angela Merkel e Nicolas Sarkozy a Silvio Berlusconi ogni volta che lo incontrano -, le pensioni di anzianità sono un lusso che né l’Italia né l’Europa si possono permettere. Il Cavaliere dice che lo capisce, però poi torna a Roma e il suo alleato al Governo – Umberto Bossi, il rude leader della Lega Nord – gli sussurra nell’orecchio qualcosa di più convincente: “Se si toccano le pensioni, faccio la rivoluzione”. O lo stesso, se si toccano le pensioni di anzianità – di cui gode soprattutto l’elettorato di Bossi – Berlusconi cadrà dall’albero del potere e i lupi, invece di ululare, potranno alla fine raggiungere la preda che da tanto tempo desideravano.
Cosicché, alla chiusura di questa edizione, incredibilmente Berlusconi continua ad aggrapparsi al potere, però ormai senza la maschera, nudo davanti allo specchio.

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martedì 8 novembre 2011

Berlusconi al Quirinale, ma a lasciare non ci pensa

La maggioranza non c’è più. Alla Camera, sul rendiconto generale dello Stato, si ferma a 308. «Otto traditori», commenta il Cavaliere. La Lega lo spinge al passo indietro, indicandogli Alfano (e bocciando Letta), però lui non vuole saperne. Difficile l’ipotesi governo tecnico senza un suo ok, anche se il nome più accreditato sarebbe Giuliano Amato e non Monti.


«Evidentemente doveva andare così». La deputata berlusconiana Nunzia De Girolamo esce dall’Aula di Montecitorio ridendo nervosamente. Raggiunge i colleghi già in Transatlantico e si lascia andare al fatalismo. La batosta si è appena consumata: il rendiconto generale dello Stato ha superato l’esame del Parlamento. La maggioranza fedele a Silvio Berlusconi no.
Nessuna sorpresa. Grazie alla presenza in aula delle opposizioni i deputati licenziano il provvedimento economico. Ma i numeri del governo certificano che il presidente del Consiglio non ha più l’appoggio di una delle due Camere. ll 14 ottobre, durante l’ultima fiducia, si erano schierati con l’Esecutivo in 316. La metà più uno degli eletti. Stavolta il conto si ferma a 308. «È andata peggio delle previsioni più nere» ammette un berlusconiano pochi minuti dopo il voto.
Adesso al Colle. Preso atto della sconfitta, il presidente del Consiglio incontrerà il capo dello Stato Giorgio Napolitano stasera alle 18.45. Un colloquio dovuto. Non necessariamente l’anticamera delle dimissioni. Ma è chiaro che durante il faccia a faccia al Quirinale i due vaglieranno anche questa eventualità. Una settimana fa il presidente della Repubblica aveva ammonito il Cavaliere: «Saranno i prossimi sviluppi dell’attività parlamentare a consentire di valutare concretamente l’effettiva evoluzione del quadro politico-istituzionale». Facile capire che dopo la débacle di oggi al Colle stiano già pensando a un esecutivo tecnico. Ipotesi di difficile realizzazione, specie se il Cavaliere continua a puntare i piedi. Eppure al Quirinale avrebbero già individuato un nome: Giuliano Amato. Preferito a Mario Monti per il suo profilo politico.
Intanto a Palazzo Chigi Berlusconi riunisce i suoi per studiare la strategia. Un vertice con il segretario Pdl Angelino Alfano, il sottosegretario GIanni Letta, il deputato-avvocato Niccolò Ghedini. Ma anche i leghisti Roberto Maroni, Umberto Bossi e il ministro dell’Economia Giulio Tremonti. Si discute della sconfitta, si analizzano i voti. A Palazzo in molti sono convinti che il Cavaliere sia deciso ad andare ancora avanti. Berlusconi potrebbe chiedere la fiducia - stavolta al Senato, dove la maggioranza è più solida - sulla lettera che l’Esecutivo ha presentato all’Ue. E dimettersi solo dopo questo ulteriore passaggio parlamentare. Senza essere stato formalmente sfiduciato dalle Camera. Abbastanza per poter concertare con il Colle la fase politica successiva. Indicando il nome del nuovo premier. «Per ora non si dimette - spiega un fedelissimo alla buvette - Chiederà la fiducia. Se ce l’ha bene, sennò…».
Ma nessuno avanza certezze. Le voci che arrivano dalla sede del Governo raccontano di un forte pressing di Umberto Bossi e del ministro dell’Economia Giulio Tremonti per convincere Berlusconi a rassegnare le dimissioni. Il famoso «passo laterale» che già nel pomeriggio il Senatur era tornato a chiedere al premier, avanzando un’ipotesi per la  successione: Alfano, preferito a Gianni Letta, considerato troppo “romano”. Insomma, nonostante le resistenze del Cavaliere le sue dimissioni restano un’eventualità. Il voto di oggi lo avrebbe duramente colpito. Chi ha parlato con lui racconta la sorpresa e il disappunto nei confronti dei deputati che hanno abbandonato la maggioranza. «Mi hanno tradito, ma questi dove vogliono andare?» avrebbe confidato il premier ad alcuni ministri al termine del voto. E lo scoramento di Berlusconi viene immortalato da un fotografo, su un biglietto che scrive durante la votazione. «308, meno otto traditori. Prendo atto. Presidente della Repubblica». Poi la fatidica parola: «Dimissioni».
In Transatlantico la notizia si diffonde incontrollata. Qualcuno riporta  un presunto sfogo del Cavaliere. Prima di lasciare Montecitorio avrebbe detto: «Mi vogliono mandare a casa? Bene. Adesso facciamo governare gli altri, la sinistra. Lasciamo a loro la patata bollente del default». Un suo deputato non apprezza. «Spero che queste indiscrezioni siano false. Anche perché qui nessuno sembra rendersi conto che a rischiare è il Paese. Dopo il default non c’è più niente».
Sui divanetti in molti continuano a studiare i numeri della sconfitta. Da una parte i 308 rimasti fedeli al Cavaliere. Dall’altra 321 astenuti. Ma non tutti nella (ormai ex) maggioranza digeriscono il tracollo. «In ogni caso - racconta un fedelissimo berlusconiano - lo smottamento del partito non c’è stato. Il Pdl è ancora una realtà centrale in Parlamento. Chi vuole fare un governo tecnico non può avere la maggioranza». «Onestamente mi aspettavo un po più di voti» si limita a commentare il responsabile Francesco Pionati. Il ministro Renato Brunetta rincara:  «La Costituzione non richiede al governo di avere la maggioranza assoluta: per governare basta quella semplice». I giornalisti tedeschi, oggi presenti in gran numero alla Camera, registrano stupefatti sui loro taccuini. 

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Il programma del Governo è rimasto sulla carta

Dopo 42 mesi di governo cosa ha realizzato l’esecutivo Berlusconi? Il programma elettorale del Pdl parlava chiaro: «Sette missioni per il futuro dell’Italia». Rilanciare lo sviluppo, sostenere la famiglia, più sicurezza e giustizia, il rilancio del Sud, Il federalismo fiscale e un piano straordinario di finanza pubblica. Obiettivi raggiunti? Tutti i risultati nella nostra infografica


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lunedì 7 novembre 2011

Inchiesta: LA GRANDE EVASIONE

E' stata appena varata una manovra da 60mld ma per arrivare a questa cifra, nelle intenzioni del governo, sarà centrale il contrasto e la lotta all’evasione. E’ previsto per esempio anche il recupero dei 4 miliardi mai versati previsti nel condono del 2002. Ci sarebbe poi l'intenzione di recuperare denari dalla lotta al lavoro nero e alla sotto fatturazione: un giro d’affari di circa 260 miliardi l’anno che coinvolge un po’ tutti, dal piccolo commerciante, che se può evita di fare tutti gli scontrini, alla grande impresa che evade mettendo in campo i metodi più sofisticati.
Alla fine l’evasione stimata è di circa 120 miliardi l’anno. Oltre all’evasione però c’è un modo più sottile e ambiguo di non pagare le tasse: l’elusione. Non violi la legge ma l’aggiri con l'ausilio di finanziarie estere e sfrutti le detrazioni fiscali. Tra il 2005 e il 2009 l’han fatta quasi tutte le banche, da Unicredit a Intesa, da Credem a Popolare di Milano, a Carige e Monte dei Paschi. Adesso il fisco contesta loro miliardi. Quasi tutte han deciso di transare con l’Agenzia delle Entrate che ha riscosso, per ora, più di 500 milioni. La Procura di Milano intanto ha appena sequestrato 245 milioni a Unicredit, e sottoposto a indagini anche l’ex amministratore delegato Alessandro Profumo.
Giovanna Boursier ricostruisce alcuni meccanismi della grande evasione, per raccontare soprattutto in che modo e con quali risultati lo Stato riesce a contrastarla. L’Agenzia delle Entrate e la Guardia di Finanza ogni anno accertano miliardi di euro evasi, ma poi quanto recuperano effettivamente? E quando nasce un contenzioso, se ne occupano le Commissioni Tributarie. Ma con quali risultati?

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L’Italia non è una repubblica fondata sul lavoro

Il rapporto tra popolazione inattiva e popolazione occupata parla chiaro. Il livello medio nei Paesi sviluppati (Ocse) è pari al 72,5%. Nello Stato dove lavorano più persone, la Svizzera, è pari al 41,4. L’Italia è uno dei pochi Paesi a superare quota 100%. Questo significa che sono più quelli che non lavorano rispetto agli occupati (precari compresi). Peggio di noi fanno solo Turchia e Ungheria. Un po’ meglio fa la Grecia. Il confronto nella nostra infografica.


«L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro»? I padri e le madri costituenti hanno posto questo principio come primo articolo della Costituzione proprio perché il lavoro diventasse la stella polare in grado di orientare le politiche di crescita e benessere per le generazioni future.
Ma è andata davvero così? Vediamolo nei fatti. Abbiamo costruito un indicatore che mette in relazione – tra chi ha superato l’età minima legale per lavorare – la popolazione occupata su quella inattiva. I risultati sono quelli riportati nell’infografica.
Il livello medio dei Paesi sviluppati (Ocse) è pari al 72%. L’Italia è uno dei pochi Paesi a superare il 100%. Questo significa che sono più quelli che non lavorano rispetto agli occupati (precari compresi). Peggio di noi fanno solo Turchia e Ungheria. Un po’ meglio la Grecia.
Non è vero quindi, dati alla mano, che l’Italia è fondata sul lavoro. Chi ha avuto responsabilità di governo negli ultimi decenni non è stato granché in grado di realizzare lo spirito fondante della Costituzione.


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sabato 5 novembre 2011

Bank Transfer Day: il boicottaggio bancario

Mancano ormai pochissime ore all’inizio del Bank Transfer Day: la giornata di domani sarà infatti caratterizzata da questa iniziativa, una ulteriore forma di protesta contro la finanza che si accompagna idealmente ad Occupy Wall Street. L’idea è venuta in mente a una giovane di Losa Angelse, Kristen Christian, non ancora trentenne ma con le idee ben chiare in testa. L’obiettivo del suo progetto è infatti quello di chiudere i conti correnti delle principali banche presenti negli Stati Uniti, aprendone di nuovi e trasferendo tutti i risparmi a disposizione in altri istituti. Si tratta delle cosiddette Credit Unions, delle cooperative senza scopo di profitto in cui i correntisti diventeranno anche proprietari di parte dell’istituzione. Qualcuno potrebbe pensare che sia una trovata estemporanea, ma in realtà non è così e diversi dati confermano tutto questo. Anzitutto, gli indignados stanno appoggiando con forza l’idea della Christian, ma fa rumore soprattutto l’adesione di un senatore del Vermont, Bernie Sanders, forse non molto conosciuto, ma comunque un politico importante. La ventisette californiana vuole far ricordare per tutta la vita la data del 5 novembre a colossi del credito come Bank of America e JP Morgan Chase, accusati di aver abusato fin troppo della pazienza dei correntisti. Per il momento, ci si è assicurati il boicottaggio di diverse migliaia di correntisti, una cifra impensabile e incredibile, la quale può mandare un segno forte e inequivocabile alla finanza mondiale. Vi sono molti aspetti che fanno infuriare in questo caso: ad esempio, Bank of America riesce a guadagnare ben tre miliardi di dollari ogni anno grazie alle proprie carte di debito, grazie anche ad alcune dubbie e costose commissioni che tartassano la clientela. La stanchezza per tutti questi soprusi è alla base del Bank Transfer Day, un evento che si è ingigantito grazie al web, con Facebook e Twitter a svolgere il ruolo di cassa di risonanza. Bisogna aumentare l’attenzione sulle Credit Unions, visto che troppe persone ancora ignorano di cosa si tratta, ma circa 650mila nuovi clienti si sono aggiunti a questa realtà, segno che qualcosa sta cambiando. Quanti chiuderanno effettivamente il loro conto? Domani si assisterà a questo “redde rationem” e si capirà se la gente ha davvero coraggio (un’iniziativa simile promossa dall’ex calciatore Eric Cantona si è rivelata un fuoco di paglia): se tutti la pensassero come il senatore Sanders (un suo tweet recitava espressamente che i cittadini devono essere liberi di scegliere dove trasferire il loro denaro) saremmo già a posto.

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Berlusconi lo zittisce e Tremonti sibila: “Vattene o sarà il disastro”

In conferenza stampa con Berlusconi, Giulio Tremonti evita di rispondere alla giornalista che gli chiede se crede che il governo debba fare un passo indietro. Ma, i cronisti presenti, al termine dell'incontro, hanno sentito Tremonti ribadire il suo pensiero sull'argomento: «O te ne vai o lunedì sui mercati sarà un bagno di sangue». In serata il Ministero ha smentito l'affermazione, ma i cronisti l'hanno sentita personalmente. Guarda il video e la seccata risposta di Tremonti

La conferenza stampa di oggi con Berlusconi e Tremonti (Afp)   

CANNES - «Se non te ne vai, lunedì sui mercati sarà un bagno di sangue». È questa la risposta che Giulio Tremonti non ha dato davanti alle telecamere alla domanda di una giornalista della Reuters che chiedeva se il ministro del Tesoro pensi che il governo debba fare un passo indietro. Lo riportano fonti governative italiane, che non hanno nascosto l’evidenza.
In una conferenza stampa assieme a Berlusconi (guarda il video qua sotto) durante il G20 di Cannes, prima interviene lo stesso premier che ridendo dice «sono domande con risposta già certa, sentiamola». Poi, mentre la sala stampa ride, l'inquilino di via Venti Settembre prima esita un attimo, poi replica che «dopo quello che ha detto il presidente del Consiglio non credo ci sia altro da aggiungere».
In realtà, a quanto risulta a Linkiesta, al termine del siparietto Tremonti, che era entrato nella sala 11 del Palais Des Festivals in evidente ritardo e con un viso ridanciano, parlottando con il premier gli avrebbe ribadito il suo pensiero: vattene o viene giù il mondo. Del resto, la tensione fra i due era evidente. Il primo a entrare, anch’esso in ritardo, è stato Berlusconi e solo dopo diversi minuti, interminabili per il presidente del Consiglio, è arrivato Tremonti.
In effetti, la reazione dei mercati finanziari alla conferenza stampa italiana non è stata positiva. Il principale listino azionario di Piazza Affari, il Ftse/Mib, è crollato di due punti percentuali dalle 15:00 in poi, proprio in concomitanza dei primi lanci d’agenzia sulle parole di Berlusconi. Analogo il movimento ribassista sui titoli di Stato italiani. I Btp sono apparsi subito in forte pressione. Il differenziale di rendimento fra i titoli italiani e i corrispettivi tedeschi, storico benchmark di solidità finanziaria nella zona euro, ha ritoccato i massimi, superando per qualche istante quota 460 punti base. Solo l’intervento della Banca centrale europea (Bce) tramite il Securities markets programme (Smp), intorno alle 16:00, ha raffreddato gli animi degli investitori. L’effetto è però durato poco. L’attesa è ora per lunedì. Sarà l’occasione per capire cosa ne pensano le piazze finanziarie della precaria situazione italiana.
In serata il Tesoro ha smentito che Tremonti abbia detto questa frase. In una nota un portavoce ha detto che «alcuni siti internazionali oggi riprendono una frase che il Ministro dell'economia e delle finanze, Giulio Tremonti, avrebbe rivolto al Presidente del consiglio, Silvio Berlusconi. Si tratta un'affermazione virgolettata apparsa sulla stampa italiana il giorno precedente totalmente priva di fondamento e quindi falsa». Tuttavia il cronista de Linkiesta, assieme ad un collega di un grande giornale anglosassone, hanno sentito personalmente l'affermazione del ministro che gli è stata poi confermata da fonti governative.



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venerdì 4 novembre 2011

Il parlamentare e l’uomo qualunque. Vite a confronto


Che differenza c’è tra la vita di un eletto al Parlamento e quella di un qualsiasi cittadino? Quanto guadagnano all’anno l’uno e l’altro? Quante ore lavorano e di quanti giorni di ferie dispongono? Quanti anni di contributi devono versare per andare in pensione? Tutte le risposte nella nostra infografica realizzata in esclusiva per Yahoo!





Benzina, aumentano le accise per la Lunigiana. Ma paghiamo ancora la guerra in Etiopia

Sempre più cara: tocca nuovi record la benzina in Italia dopo il terzo aumento delle accise deciso in pochi mesi dal Governo. Un aumento di 0,89 centesimi al litro per fronteggiare l’emergenza maltempo che sta affliggendo la Liguria e la Toscana e che si aggiunge ai precedenti rincari decisi tra giugno e luglio: + 0,19 centesimi al litro per finanziare Fus  (Fondo Unico per lo Spettacolo) e l’aumento di ben 4 centesimi al litro per far fronte all’emergenza immigrazione nei mesi scorsi.
E tra un’emergenza e l’altra, i prezzi continuano a crescere. Secondo le rilevazioni di Staffetta Quotidiana, infatti, sulla rete Q8 il prezzo della verde avrebbe ormai raggiunto il picco degli 1,648 euro al litro: il nuovo massimo storico nominale – dopo quello di 1,646 rilevato lo scorso 19 settembre – per una media ponderata nazionale dei prezzi della benzina che si attesta tra i diversi marchi a 1,631 euro al litro e a 1,542 euro al litro per il gasolio. Con una particolarità: al Sud Italia si arrivano a sfiorare anche gli 1,7 euro per un litro di verde. Dall’anno scorso ad oggi, insomma, i prezzi non hanno mai smesso di alzarsi, arrivando ad un rincaro pari a quasi il 20%: se infatti lo scorso anno per un pieno di benzina di un’auto di media cilindrata occorrevano all’incirca 70 euro, ad oggi ce ne vogliono 82,4.
Il Codacons ha stimato al riguardo come questi tre recenti aumenti delle accise porteranno «una tassa aggiuntiva pari ad 89 euro ad autovettura, tassa così composta: 60 euro per l’aumento delle accise entrato in vigore tra giugno e luglio, 13 euro per l’aumento delle accise deciso per il maltempo in Toscana e Liguria, e, considerando la benzina a 1,631 euro al litro ed il gasolio a 1,542 euro al litro, 16 euro per l’aumento dell’Iva al 21% (non calcolando gli arrotondamenti, altrimenti si sale a 21 euro)». Se si considera quindi che in Italia sono presenti 36 milioni e 728 mila veicoli circolanti, il Codacons ha parlato di una «stangata teorica pari a 3,2 miliardi di euro» e ha deciso di ricorrere al Tar del Lazio contro questo provvedimento.
Provvedimento che, infatti, rischia di gravare sulle spalle dei cittadini molto più a lungo di quanto invece durerà l’emergenza in Lunigiana per il quale è stato varato. Se poco ci potrebbe essere da dire sulla legittimità o meno dell’aumento delle accise per fronteggiare la grave crisi ambientale,  sorge però spontanea una domanda di diversa natura: anche questa accisa farà la fine delle altre che mai sono state rimosse? Al momento in Italia più del 50% del prezzo al consumo della benzina è infatti costituito da tasse e accise, molte delle quali furono introdotte negli anni passati come misura temporanea per fronteggiare situazioni di crisi e a tutt’oggi – sebbene siano venute meno le cause che le hanno determinate – non sono state rimosse: tra gli esempi più significativi potrebbero esserci l’accisa di 1,90 lire (0,001 euro) per la guerra in Etiopia del 1935 o quella di 99 lire ( o, 051 euro) per il terremoto in Friuli del 1976. Ma l’elenco è lungo e comprende anche la Crisi di Suez del 1956 o il disastro del Vajont del 1963, per il quale tra l’altro gli enti locali avevano in passato denunciato di non aver mai ricevuto una lira dallo Stato Italiano. Come a dire: c’è chi continua a mangiare dalla tragedie dei cittadini. Presenti e passate. Una volta istituita, l’accisa non si perpetua negli anni.

Servizio Pubblico, terzo “canale” in Italia Michele Santoro: “Rivolta contro il degrado tv”

”Il risultato di ieri conferma che è in atto una rivolta contro il degrado della tv generalista occupata dai partiti, sia nel pubblico che nel privato. Lavoreremo per estendere questa rivolta, per trasformarla in rivoluzione. E la rivoluzione, a guardare il grande successo di ieri sera, è già cominciata”. Così Michele Santoro commenta lo straordinario risultato della prima puntata di Servizio Pubblico, il programma multipiattaforma andato in onda su Sky, su diverse tv locali e sul web. Le Tv regionali hanno avuto 2.276.418 spettatori e SkyTg24 Eventi 645.113, per uno share complessivo di 12,03 per cento. Sul web – spiega la redazione del programma – si realizza un risultato mai registrato i precedenza in Italia, e sicuramente tra i record a livello mondiale: 5 milioni di contatti e più di 300.000 utenti medi contemporanei. E’ stato anche l’evento live più seguito di sempre su Iphone e Ipad in Italia, con un picco di 4 mila utenti contemporanei.

Serviziopubblico.it è stato il primo canale per cinque ore sulla rete. Straordinario anche l’uso interattivo di Facebook durante il programma, con 120.000 risposte complessive ai sondaggi lanciati durante il programma; 55.000 nuovi “Mi piace” durante l’evento; 5.000 commenti allo streaming e #ServizioPubblico è stato il trending topic su Twitter per l’intera serata, con 2.500 follower in più durante l’evento. Grande soddisfazione anche da Radio Capital, dove i primi riscontri parlano di un successo.

L’insieme delle reti che hanno trasmesso “Servizio Pubblico” si sono affermate come il terzo “canale” più visto in prima serata dopo Raiuno e Canale 5. In totale, ”Tre milioni di sonori schiaffi a chi ha determinato l’uscita di Michele Santoro dalla Rai”, sintetizza il consigliere d’amministrazione della tv di Stato Nino Rizzo Nervo.

Voglio uno stadio pieno”, disse con il progetto ancora su carta. Ecco il Maracana di Michele Santoro con le sue torri in acciaio e i ragazzi dentro, le gru che reggono due cartelloni, il palco nudo che tiene insieme chi guarda, chi parla, chi ascolta. Sul ritornello dei ‘Soliti‘ di Vasco Rossi, ecco Santoro che cammina piano, si ferma. Ecco l’applauso, e si comincia: “Caro Biagi, caro Montanelli, so che siete molto in apprensione. So che siamo stati molto diversi, ma so che ci state seguendo con molta passione in questo momento. Non se ne può più di resistere, resistere, resistere. Ha ragione Monicelli: bisogna fare la rivoluzione. Questa è la nostra piccola rivoluzione. Né di destra né di sinistra, ma civile, democratica e pacifica”.

Il giornalista indica il pubblico: “Abbiamo centomila sottoscrizioni. Avete acceso queste luci, adesso potete accendere se volete Adriano Celentano, Daniele Luttazzi, Serena Dandini”, e ringrazia il Fatto che ci ha creduto. Ecco l’intervento di Marco Travaglio; Vauro incappucciato che annuncia catastrofi e tragedie: “Sono il padre della santa indignazione”, e via con la prima razione di vignette. Ecco che per una partita, che cambia le regole televisive, s’arriva presto. In gruppo con zaino in spalla, panini e acqua. Seguendo liturgie e scaramanzie, tempi e ritmi con i spettatori trasformati in comunità. Quella di Servizio Pubblico. Fermata metro di Cinecittà, traffico all’ora di punta, Andrea corre per le scale con Matteo, Gianluca, Laura e Paolo. Scherza, per esorcizzare il passato: “Che dite, stasera telefona il direttore generale Mauro Masi?”. Masi ha smesso (per sempre) con la Rai, Santoro per il momento.

Il programma è in scena. Non c’è un editore che verifica scaletta e ospiti. Non c’è più l’ossessione di circolari legali, esposti a presunte Autorità di controllo. Qui c’è un cantiere che funziona già: la televisione oltre la televisione, attraverso una multi-piattaforma che mescola Facebook, il satellite di Sky, il digitale terrestre, i siti di quotidiani, una radio. Servizio Pubblico è un po’ ovunque per sfuggire al controllo e per riaccendere quel circuito di emittenti regionali schiacciate dal duopolio Rai-Mediaset e spolpate con l’esproprio del governo per liberare le frequenze telefoniche. Nei corridoi che avvolgono lo studio c’è tensione, non timore. Addio quei lunghi ostacoli che minavano la partenza di Annozero. Le ansie: ora chiama Masi, ora arriva l’Agcom, ora il deputato del Pdl (il mitico Francesco Paolo Sisto) carica per farsi inquadrare.

Le paure: dovete rispettare l’orario di chiusura, dovete cronometrare l’intervento del politico di destra e del politico di sinistra. Paranoie che imprigionano viale Mazzini e le televisioni generaliste. La redazione completa le ultime riunioni, la regia prova le telecamere, e poi Vauro sale in camerino. E’ il segnale che manca poco. Studenti liceali parlano con mamma e papà, spiegano che studieranno domani, un po’ di più: “Mamma, siamo arrivati in anticipo. Sai è la prima volta. Domani sto sempre a casa, sabato nemmeno esco”. Giovanni e Bianca sono sardi, erano a Bologna per Raiperunanotte e Tuttinpiedi: “Oggi è il traguardo, anche la nostra festa”. Luca è nuovo: “Confesso, ero berlusconiano. Adesso non sono di sinistra, ma sono convinto che la libertà di espressione sia il bene più importante per una democrazia. Per questo sono qui”.

Il rapporto con il pubblico è quel senso di “stare in mezzo e in alto”, quel gruppo di sedie fra i piloni. I ragazzi che osservano – dai piani superiori – come si “licenzia la casta”, il primo titolo per la prima puntata. Perché senza” quel pubblico, così aderente anche fisicamente al programma, questa sera di “rivolta del telecomando”, per dirla con Santoro, mai ci sarebbe stata. C’è chi cerca e chiede come diavolo si può rescindere l’abbonamento con la Rai, c’è chi ha versato 10 euro per vedere di nuovo Santoro, Travaglio e Vauro in televisione. Sono centomila telespettatori, sono un milione di euro raccolto. Quelle sedie di legno, al centro di un muro di gente e di metalli mostrano che, nei giorni di titoli di Stato e debiti impazziti, nemmeno quaggiù si sta comodi. Lì ci sono l’imprenditore Diego Della Valle, che arriva in anticipo; il sindaco Luigi De Magistris; Luisella Costamagna, Franco Bechis e Paolo Mieli che devono fare le domande; Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo che raccontano il vizio di casta. E poi Valter Lavitola in collegamento, il latitante-faccendiere che trafficava con il sostegno del Capo. Che forse, oggi, avrebbe bisogno del suo estro fuori regola e fuori legge.

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sabato 22 ottobre 2011

Occupy London fa chiudere St. Paul


La cattedrale anglicana di St. Paul a Londra è stata da oggi chiusa al pubblico a causa dei manifestanti inglesi che si sono accampati davanti alla chiesa dalla manifestazione di sabato 15 ottobre contro la finanza globale. È la prima volta che la cattedrale chiude dopo i quattro giorni di blitz nella Seconda Guerra Mondiale.
Il decano di St. Paul, Knowles Graem, ha detto che «la decisione è senza precedenti nei tempi moderni ed è stata presa a malincuore per motivi di salute e sicurezza». In una lettera aperta ha chiesto ai manifestanti di «riconoscere gli enormi problemi da affrontare in questo momento» e di «lasciare i dintorni del palazzo in modo che la cattedrale possa riaprire al più presto». St. Paul è una delle attrazioni più visitate di Londra che si sovvenziona attraverso le entrate dei turisti (820 mila persone, nel 2010).
I manifestanti di “Occupy London” avevano trovato l’iniziale appoggio del reverendo Gilles Fraser che aveva chiesto alla polizia di rinunciare a formare un cordone attorno alla chiesa: «Non sentivo il bisogno di quel tipo di protezione», aveva dichiarato.
Oggi, il reverendo ha ribadito la propria posizione: «Siamo felici che le proteste di Londra siano pacifiche e, in effetti, c’è stata una buona atmosfera tra il personale della cattedrale e coloro che abitano nelle tende. C’è qualcosa di profondo nella protesta in corso». Tuttavia, ha aggiunto, «era evidente a chiunque si avvicinasse alla cattedrale che le dimensioni del campo crescevano sempre di più e che questo ci ha messo in una posizione difficile».
Le preoccupazioni dei funzionari della cattedrale non riguardano solo le dimensioni del campo e la conseguente riduzione degli accessi, ma anche la mancanza dei necessari requisiti di sicurezza delle entrate alla chiesa: «I vigili del fuoco – ha detto il reverendo – hanno fatto notare che l’accesso da e per la cattedrale è seriamente limitato. Poi c’è la questione della pubblica sicurezza. I rischi non si riferiscono solo al personale della cattedrale e ai visitatori, ma sono un pericolo potenziale anche per gli stessi manifestanti del campo».
I membri di Occupy London hanno risposto che decideranno insieme e democraticamente che cosa fare, facendo però sapere che «nelle ultime 48 ore, il campo è stato completamente ri-organizzato secondo le indicazioni date dai vigili del fuoco ed è stata anche accettata la presenza di due barriere per preservare l’accesso alla porta laterale della Cattedrale. Oggi pomeriggio ci è stato detto, in una telefonata da parte dei vigili del fuoco, che sono stati stabiliti nuovi requisiti oltre a quelli già comunicati direttamente al campo».
I manifestanti chiedono quindi che vengano specificati «con precisione» quali siano i problemi di sicurezza e credono che i timori dei funzionari della cattedrale non siano tanto legati alla sicurezza, ma di natura economica: «Crediamo che siano preoccupati per il loro numero di visitatori. Abbiamo cercato di garantire sul fatto che il nostro programma non è in conflitto con il loro, in modo che la normale gestione della Cattedrale non fosse alterata. Chiaramente, siamo anche diventati un’altra attrazione turistica alle porte della chiesa».

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venerdì 21 ottobre 2011

IL CASO/ Campiglio: ecco perché la Germania taglia le tasse anche se cala il Pil


Il ministro delle Finanze tedesco, Wolfgang Schauble, e quello dell'Economia, Philipp Roesler, hanno raggiunto un accordo di cui i cittadini non potranno che essere entusiasti: dal gennaio 2013, saranno abbassate le tasse, sui redditi da lavoro, di 6-7 miliardi di euro. Contestualmente, tuttavia, il governo ha tagliato le stime di crescita per l’anno prossimo. Dall’1,8% all’1% del Pil. Qualcosa non torna. Se cala la crescita, infierire sui conti dello Stato con uno sgravio fiscale sembra equivalere a darsi la zappa sui piedi. In realtà, Luigi Campiglio, professore di Politica economica all'Università Cattolica di Milano spiega a ilSussidiario.net che le cose non stanno propriamente i questi termini. «Mentre è vero - dice - che, dal punto di vista degli scambi commerciali, la maggior parte dei Paesi, compresa l’Italia, ha un disavanzo, questo non accade in Germania». Nonostante, quindi, le critiche giunte al governo federale dall’opposizione e dagli alleati del Csu per esser stati tenuti all’oscuro della manovra, questa rimane sostenibile. Anche perché sarà aumentata la soglia reddituale sotto la quale si è dichiarati esentasse. Non solo. «La diminuzione è possibile per una ragione poco sottolineata nel dibattito attuale», afferma Campiglio. «La Germania è in grado, molto più efficacemente degli altri Paesi, di stimolare la domanda interna, grazie all’elevato e strutturale avanzo delle partite correnti». Secondo il professore, «questo è il risultato dei suoi successi commerciali in Cina e nei Paesi emergenti ma, al contempo, di quelli relativi agli interscambi in Europa». Da tempo è noto come la Germana sia tra i pochi Paesi europei che hanno saputo cavalcare l’onda della crescita di Paesi come il gigante asiatico, l’India e il Brasile. Ma, come spiega Campiglio, ha saputo fare ben altro. «Per intenderci, possiamo dire che la Germania sta all’Ue come la Cina sta agli Stati Uniti. I tedeschi importano prodotti europei, come i cinesi quelli statunitensi, diventando così loro finanziatori indiretti».  Del resto, continuare a puntare esclusivamente sull’export può non essere la strada migliore. «La scelta tedesca rispecchia anche - con una certa velocità decisionale -, la presa di coscienza del fatto che il tasso di crescita dei Paesi emergenti sta iniziando a rallentare, pur rimanendo decisamente alto». E in Italia?
Anche da noi sarebbe plausibile un simile taglio? «Sette-otto miliardi, alla fine, non sono una grande cifra. Una razionalizzazione della struttura della spesa ci consentirebbe interventi di quell’ordine di grandezza che, rispetto alla Germania, risulterebbero per il nostro Paese molto più significativi». Se, quindi, le tasse non si abbassano, il motivo resta sempre lo stesso: «Il ministro dell’Economia sostiene che non si può fare». Punto e basta. «Eppure - conclude Campiglio -, ci sono elementi che indicano il contrario. Basti pensare all’entità delle multe che dovremo pagare per le infrazioni sulle quote latte o le ingenti risorse accantonate da numerosi enti locali, non utilizzabili per colpa del patto di stabilità».

sabato 15 ottobre 2011

Tutte le stranezze del superbollo auto

Una nuova tassa sta per ricevere il benvenuto dal nostro sistema fiscale: si tratta del cosiddetto superbollo auto, l’imposta che si riferisce alle autovetture più potenti e che entrerà in vigore per la prima volta a partire dal prossimo 10 novembre. Il bollo in questione non è altro che una addizionale che va ad applicarsi su quelle auto che hanno una potenza superiore ai duecentoventicinque chilowatt. Peccato che, nonostante un apposito decreto di pochi giorni fa, i punti ambigui siano ancora molti, così come la reale efficacia di questa misura. L’intento dell’Agenzia delle Entrate è quello di separare in maniera opportuna i flussi contabili ed ha già predisposto un apposito modello F24 per il versamento, ma resta il fatto che il nuovo tributo assomiglia tanto all’ennesima forzatura per battere cassa. Se ne parlava male già prima dell’introduzione, anche se, a ben vedere, i propositi sono interessanti, ovvero colpire dal punto di vista fiscale le autovetture di maggiore cilindrata, quelle più potenti e quindi anche inquinanti. Il problema sta nella caratteristica principale del bollo, visto che esso è retrodatato: che cosa vuol dire? Il decreto parla chiaramente di una tassa che va applicata non al momento dell’entra in vigore ma da tre mesi prima, quindi questo significa che il superbollo deve essere pagato anche da coloro che hanno venduto la macchina dallo scorso mese di luglio. Come si è potuta creare una situazione così strana? Le finalità sono giuste, ma questa tassa di proprietà coinvolge anche quei contribuenti che non sono più proprietari della vettura: è tutto scritto chiaramente nel decreto, quindi non c’è nessuna forzatura o una volontà estrema di contestare il governo. Più che altro, questa novità potrebbe fornire lo spunto per nuove tasse retrodatate; insomma, per ora tocca alle macchine potenti, ma in futuro cosa si rischia? Il malcontento è diffuso, un tavolo tra le parti, associazioni dei consumatori comprese, è quantomeno necessario, altrimenti la confusione e l’iniquità regneranno sovrane.

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venerdì 14 ottobre 2011

Non fate vedere questo sondaggio a Berlusconi

Ormai è un giudizio tombale quello che mostra questo sondaggio mostrato a Ballarò.
Di Berlusconi l'Italia non ha più bisogno, il "più amato al mondo" non è in grado di Governare l'Italia, anzi per mio giudizio, non è mai stato capace!
Quel 61% pesa come macigni, perchè, non solo contiene voti di Comunisti, ma contiene anche voti di chi fino alle scorse elezioni l'hanno votato e sostenuto, in quel 61% c'è il voto di persone di destra che di Berlusconi non ne possono più.. è finito l'Incanto.. Sono finiti i giorni in cui lui si diceva "sono invincibile".. e nessuno gli crede più quando dice:

«Sono il migliore, il più amato, il più intelligente.. L'attività del governo ha del miracoloso..e se gli italiani sapessero ciò che abbiamo fatto dovrebbero farci un monumento.. Il presidente del Consiglio italiano in tutti i consessi internazionali è quello più esperto»

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venerdì 7 ottobre 2011

Il premier: "Un partito Forza gnocca"

''Forza Gnocca'', la notizia sui siti stranieri

vedi le altre foto delle notizie

''Il nome che avrebbe più successo mi dicono sia quello di Forza Gnocca…''. La frase di Silvio Berlusconi rivolta a un gruppetto di parlamentari del Popolo della Libertà, parlando di un ipotetico restyling del partito di governo, viene a poche ore riportata sui principali siti dei quotidiani esteri come il blasonato quotidiano francese ''Le Monde'',  il tedesco ''Welt on line'',  l'inglese ''Mail on line'' e la tv americana CNN

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Chi uccide l’auto elettrica

Tutte le case automobilistiche mondiali sono impegnate in percorsi ecologici, molti dei quali includono lo sviluppo dell’auto elettrica. L’assente probabilmente più noto in materia è FIAT, come più volte chiarito da Marchionne, ma anche altri.
A parole, tutti concordano che l’auto elettrica è una di quelle cose che farebbe bene all’ambiente. Nei fatti, pochissimi ne comprano una. Nonostante gli incentivi, infatti, dall’inizio dell’anno infatti le vendite di Nissan Leaf e Chevrolet Volt – campioni della categoria – negli Stati Uniti si sono fermate a solamente circa 10mila unità, in Italia i veicoli elettrici immatricolati nel 2011 sono stati 103. Per darvi un paragone, negli USA si vendono circa 10 milioni di veicoli all’anno mentre solo in Italia si vendono quasi 200mila FIAT Punto all’anno (1).
Non è la prima volta che l’auto elettrica è sembrata pronta al debutto. All’inizio degli anni 90, General Motors, grazie ai sussidi dell’amministrazione Clinton, introdusse sul mercato americano l’elettrica EV1. Ma nonostante le numerose richieste di noleggio e i feeback positivi degli utenti, i 5000 pre-ordini si tramutarono in solo 50 acquirenti, motivo che indusse GM a sospendere la produzione del veicolo, generando furiose polemiche con ambientalisti e complottisti.
Le previsioni elaborate dai centri di ricerca  sul numero di veicoli elettrici in circolazione nel futuro prossimo sono una di quelle cose dove regna il disaccordo più totale. Per il 2020, infatti, gli studi prevedono una diffusione dell’auto elettrica (o ibrida plug-in) che va dallo zerovirgola fino al 25 per cento del totale. Per il 2050 ancora peggio: le percentuali di vendite stimate variano dal 20 all’80 per cento. Questo accade perché le stime vengono generalmente fatte ragionando sul fronte della domanda. Si stima cioè la disponibilità dei consumatori a pagare di più per prodotti ecologici e si tramuta questa disponibilità in numero di veicoli venduti. Coi risultati di cui sopra.
Il problema è che il prezzo, anche se conta, non è tutto. Ragionando sul fronte dell’energia le cose diventano molto più chiare. Insomma, vendite al 10 o 20 per cento del totale del mercato significa considerare l’auto elettrica un prodotto di massa, maturo al pari di GPL e metano, e come tale deve essere attrezzato per autonomia, infrastrutture e consumi. La domanda da porsi dunque è: quali sono le condizioni tecnologiche per una motorizzazione di massa basata sull’auto elettrica?


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