Fermo restando il rispetto della Costituzione, nonché i vincoli derivanti dalle normative comunitarie e dalle convenzioni internazionali sul lavoro, le specifiche intese di cui al comma 1 operano anche in deroga alle disposizioni di legge che disciplinano le materie richiamate dal comma 2 ed alle relative regolamentazioni contenute nei contratti collettivi nazionali di lavoro e beneficiano della applicazione della imposta sostitutiva del 10 per cento sulle componenti accessorie della retribuzione ai sensi della normativa vigente.La prima cosa da sapere, prima di spiegarne il significato, è che non si tratta di una completa novità. Norme di questo genere erano già contenute nella prima bozza della manovra, quella varata dal Consiglio dei ministri prima di Ferragosto (il 14 agosto sul Post avevamo parlato del “comma che aggira l’articolo 18″). Qualcosa di diverso c’è, però.
L’emendamento, in sostanza, stabilisce che i contratti di lavoro aziendali o territoriali, quelli quindi che riguardano i lavoratori di una singola azienda o di una singola regione, possono operare in deroga ai contratti e alle leggi nazionali. Fermo restando il rispetto della Costituzione, dice l’emendamento, nonché i vincoli derivanti dalle norme comunitarie e dalle convenzioni internazionali sul lavoro.
Il riferimento ai licenziamenti che si trova su molti giornali oggi è dato dalla possibilità concessa da questo emendamento di aggirare, tra le leggi nazionali, anche lo Statuto dei lavoratori e quindi anche l’articolo 18, che vieta i licenziamenti senza giusta causa per le aziende con più di 15 dipendenti. Con la nuova manovra succede questo: che dove sono in vigore contratti aziendali o territoriali, solo se le aziende e i sindacati più rappresentativi sono d’accordo, i lavoratori licenziati senza giusta causa possono non avere il diritto al reintegro bensì a un congruo indennizzo economico. Altra sintesi: la licenziabilità dei lavoratori può rientrare tra le deroghe alla contrattazione nazionale contenuta in accordi aziendali e territoriali, purché a sottoscriverli siano i sindacati più rappresentativi. Il tutto a meno che non si tratti di licenziamenti discriminatori o di lavoratrici donne in concomitanza con matrimoni, gravidanze e congedi parentali, ai quali la nuova norma non si applica.
L’intento del governo è noto e rivendicato: privilegiare la cosiddetta “contrattazione collettiva di prossimità”, cioè quella tra il lavoratore e i soggetti a lui più vicini, azienda e territorio, rispetto alla contrattazione nazionale. La principale modifica rispetto al testo originario, quello di Ferragosto, è l’inserimento delle intese territoriali oltre a quelle aziendali (fatto per fare un favore alla Lega, dice oggi il Corriere della Sera).
Le reazioni
Sono molto variegate. La CGIL, che ha indetto per domani uno sciopero generale, è stracontraria: Susanna Camusso ha definito la norma «inapplicabile», con «evidenti profili di incostituzionalità» e ha minacciato che «dove si cercherà di applicare la legge arriveranno gli scioperi». La UIL e la CISL sono favorevoli. La UIL dice che «semplicemente si prevede la possibilità per i sindacati di avvalersi di un potere di deroga», la CISL accusa Susanna Camusso dicendo che «se il governo lavora per dividere i sindacati, la Camusso fa il doppio». È favorevole anche la Confindustria. Il responsabile economia del PD, Stefano Fassina, ha detto che «in questo modo il diritto del lavoro torna indietro di 60 anni» perché «le modifiche finiranno per annullare il contratto nazionale e lo Statuto dei lavoratori». Pietro Ichino, giuslavorista e senatore del PD, dice di non vedere «particolari rischi nelle medie e nelle grandi aziende italiane dove la contrattazione non dovrebbe presentare sorprese» ma avverte che «questi provvedimenti rischiano di aumentare la distanza tra chi lavora nelle imprese più grandi e chi invece dovrà fare i conti con una miriade di norme ad hoc contrattate nelle piccole aziende». Il ministro del Lavoro Sacconi dice che «non ha senso parlare di libertà di licenziare o usare altre semplificazioni che non corrispondono alla oggettività della norma» visto che «per i licenziamenti senza giusta causa le intese possono solo preferire la strada del risarcimento a quella della reintegrazione».
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