Come
mai l’Eurogruppo rinvia gli aiuti alla Grecia e le borse salgono? Una
spiegazione è che ormai danno per scontato il default ellenico.
Un’altra, in realtà una variante della prima, è che il destino di Atene
non appartiene più ai mercati, ma ai governi. La finanza, dunque, passa e
aspetta di capire cosa farà l’Unione europea, pardon la Germania,
pardon Angela Merkel, perché tutto a questo punto è nelle mani incerte
della Kanzlerin.
Ha ragione Martin Wolf sul Financial Times:
la Grecia è il canarino nella miniera, se muore lui allora vuol dire
che il terribile grisou sta già invadendo le gallerie. Si sente dire: i
greci sono inaffidabili, promettono e non mantengono, il voto di
aprile getta nuove incognite. Antonis Samaras, leader di Nuova
democrazia, probabile vincitore delle elezioni, minaccia di rimettere in
discussione gli accordi. A questo punto, l’Ue vuole garanzie scritte:
George Papandreou ha già impegnato la propria firma e anche Samaras
annuncia di voler inviare una lettera di intenti a Bruxelles per
smentire le sue stesse dichiarazioni verbali. Una sceneggiata che
abbiamo già visto. Anche con l’Italia.
Ma il problema a questo punto è un
altro: quanto è fragile la costruzione monetaria se anche un piccolo
Paese il cui debito è pari al 4% del debito europeo, può provocare un
così grande sconquasso? L’euro può reggere il default di uno Stato senza
avere le ciambelle di salvataggio di ogni moneta che si rispetti? Il
fondo è ancora in discussione, e in ogni caso le sue risorse sono ben
inferiori al necessario. Tutto il peso grava sulla Bce alla quale
vengono messi lacci e lacciuoli nonostante la gestione creativa di
Draghi.
La questione greca, dunque, è diventata
il pericoloso test di una strategia più generale. Angela Merkel ha
ottenuto un risultato importante il 30 gennaio facendo passare il fiscal
compact che obbliga tutti al pareggio di bilancio e a ridurre il debito
fino al 60% del Pil, con un rigido percorso annuale. Per alcuni è un
passo avanti verso una politica fiscale comune, una prova di unità. In
realtà, questa sorta di pilota automatico affida a Berlino il pulsante
europeo, ma nessuno tra i paesi dell’euro è in grado di condizionare la
politica economica tedesca.
Quello che è stato presentato come un
disegno di riduzione della sovranità nazionale a favore di una sovranità
sopranazionale, in realtà sottrae potere decisionale a tutti tranne che
alla Germania. Le nostre sorti così sono legate agli equilibri politici
tedeschi, alle decisioni del Bundestag, alla Corte suprema, alla
partita elettorale. Andremo tutti avanti così fino all’anno prossimo
prima di capire se la Merkel verrà rimpiazzata da uno più falco di lei?
La
prova di unità non sta in regole astratte e formali, ma nella volontà
politica e nei valori fondamentali del progetto europeo. È scritto nei
sacri testi: “L’Unione promuove la coesione economica, sociale e
territoriale, e la solidarietà tra gli Stati membri”. Se ci fosse una
vera Corte Costituzionale, i cittadini greci, italiani, portoghesi,
spagnoli, anziché farsi chiamare “porci” farebbero ricorso contro la
violazione del principio di solidarietà, senza il quale l’Unione non
esiste. Per molto meno, in America, gli stati del sud crearono una
confederazione e proclamarono la secessione nel 1860. Nessuno ovviamente
minaccia una guerra civile, anche perché l’Europa ne ha consumate
persino troppe. Ma non bisogna sottovalutare che nell’Ue di oggi come
negli Usa di allora si pone una questione democratica sottostante alla
questione economica e finanziaria.
Lo riconosce pienamente Mario Monti
nell’articolo firmato insieme a Sylvie Foulard, deputata europea
liberal-democratica, pubblicato da Le Monde e da Il Corriere della Sera.
Una “disfunzione” che non riguarda solo gli stati membri, perché “la
mancanza di una discussione aperta accredita anche l’impressione di un
diktat degli Stati più potenti”. Altro che impressione. Bisogna mettere
la questione democratica al centro del dibattito europeo accanto alla
querelle sui tagli, le tasse, gli spread. Come vent’anni fa, quando si
discusse di Maastricht. Allora, tutti sapevano che regolette tipo il
deficit al 3% o il debito al 60% del Pil non avevano nessun valore
scientifico, erano lampade per orientarsi nel buio di un percorso nuovo.
Simili alle lampade dei minatori per riallacciarci alla metafora di
Wolf. Quel che contava era la volontà politica di unire l’Europa mentre
crollava l’Unione sovietica e la Germania riunificava se stessa con
tutte le incognite e i fantasmi che ciò evocava.
Adesso siamo a un altro passaggio
storico. E purtroppo la Merkel e Sarkozy non sono Kohl e Mitterrand.
Riuscirà Monti a essere l’Andreotti che seppe mediare tra loro? Perché
Maastricht porta anche il sigillo di questa Italia un po’ arruffona e un
po’ machiavellica, ma della quale la fredda, cartesiana Francia e la
Germania Sturm und Drang non possono fa a meno.
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