Il processo per le morti causate dalla cementifera Fibronit sta per
iniziare. Eppure per vent'anni le patologie tumorali frequenti non hanno
fatto scattare una reazione di cittadini e amministrazione. “Ci
dicevano che alzando la voce avremmo rovinato l'economia del vino”. Le
telecamere de ilfattoquotidiano.it sono entrate nella fabbrica delle
polveri killer. Dove non ci sono ancora i soldi per la bonifica
“Il male della cementifera”. Era così che la gente di Broni,
fino agli anni ’90, definiva la rara forma di tumore ai polmoni che
colpiva con preoccupante frequenza i suoi abitanti. La patologia era
sempre quella: mesotelioma pleurico. E le vittime si moltiplicavano. Le
stime più prudenti parlano di almeno 700 morti
accertati fino a oggi. Tutti, in paese, sapevano che il tumore dipendeva
dalle polveri fuoriuscite da quella fabbrica, la cementifera Fibronit.
Morivano gli operai. Morivano le loro mogli che lavavano le tute
impregnate di quella sostanza. Morivano (e continuano a morire, perché
il mesotelioma ha una latenza che può arrivare a 40 anni) le persone che
vivevano attorno a quell’insediamento industriale – costruito proprio
nel cuore del paese – che fra il 1919 e il 1994 ha dato lavoro a 3.798
persone. Ma le denunce non arrivavano. Le associazioni delle vittime non
nascevano. Le amministrazioni comunali tacevano. Fino a dieci anni fa, a
Broni non c’era nemmeno un riconoscimento ufficiale dei danni
ambientali provocati dalla lavorazione dell’amianto.
La storia di Broni è molto simile a quella di Casale Monferrato, dove operava la Eternit (lunedì scorso il tribunale di Torino ha condannato a 16 anni i due ex proprietari).
Eppure nell’Oltrepo la reazione, per anni, non è arrivata. A differenza
della città piemontese, qui non ci sono mai state – e non ci sono
tuttora – bandiere tricolori alle finestre con la scritta “giustizia”.
Qui le prime denunce sono arrivate nello scorso decennio. Il processo
non ha ancora preso il via, l’udienza preliminare è prevista nelle
prossime settimane. Le due associazioni dei parenti delle vittime
esistono da meno di 5 anni. E prima? “Broni per un lungo periodo ha
rimosso questo problema. A differenza di Casale, c’è stata grande
difficoltà ad ammettere che il paese avesse un problema così”, spiega Gianluigi Vecchi, coordinatore provinciale di Legambiente Pavia.
“Ci dicevano che alzando la voce avremmo rovinato l’economia del vino,
ci accusavano addirittura di provocare il crollo del mercato
immobiliare”, dice Costanza Pace, bronese e membro
dell’Associazione esposti amianto: “Solo raccogliendo prove delle piogge
acide, mostrando gli effetti dello sfaldamento dei tetti e infine
istituendo il registro dei mesoteliomi, siamo riusciti a diventare sito
di interesse nazionale”. Ancora più arrabbiato Silvio Mingrino,
fondatore di Avani, l’altra associazione delle vittime: “Ho perso mio
padre nel ’99 e mia madre mi spiegò che la causa era ‘il male della
cementifera’. Poi, nove anni dopo, morì anche lei: mesotelioma pleurico.
Quel giorno capii che non potevo più fare finta di niente. Chi doveva
tutelarci non l’aveva fatto, dovevamo pensarci da soli”. Mingrino
sostiene che le 700 vittime di cui parla Legambiente siano frutto di una
stima per difetto. A noi risulta che dal 1978 ad oggi siano decedute
per patologie legate all’esposizione all’amianto 1.300 persone”.
L’amianto ha fatto parte della vita di Broni, ne è stato protagonista
per più di cinquant’anni: “Qui molto spesso agli operai venivano date le
lastre difettose da usare nelle campagne o il polverino residuo per
fare il cemento dei vialetti negli orti”, spiega Mario Fugazza,
assessore all’Ambiente, che ha fatto un censimento della presenza di
lastre di amianto nel Comune: “Le coperture di amianto, dal capannone al
ricovero attrezzi, hanno una superficie complessiva di circa 150mila
metri quadrati, di cui circa mille sono pubblici”. Le associazioni ora
avanzano richieste all’amministrazione: “Deve arrivare una bonifica di
tutti i manufatti”, aggiunge Costanza Pace. “A Broni anche chi non
lavorava in fabbrica veniva colpito da questo killer silenzioso che
usciva dalla fabbrica ed entrava silente nelle nostre abitazioni. E
quasi tutti a Broni hanno avuto un morto per malattie causate da queste
polveri”.
Già, la bonifica. I tempi sono lunghissimi. Oggi è in
corso la messa in sicurezza (che arriva a 18 anni dalla chiusura della
fabbrica), per la quale sono stati stanziati circa 5 milioni di euro. Ma
fare recinzioni e tappare con dei pannelli le aperture nelle pareti non
significa bonificare. Per questa seconda fase non ci sono ancora i soldi.
Stesso discorso per lo smaltimento di tutte le lastre rimosse. “Non ci
sono ancora i 15 milioni per la bonifica e 10 per lo smaltimento. Dopo
la sentenza di Casale questo è inaccettabile”, spiega Gianluigi Vecchi. E
l’assessore aggiunge: “Avendo a disposizione una somma non sufficiente
per procedere con la bonifica, abbiamo iniziato l’intervento dai
capannoni in cui avvenivano le lavorazioni”.
Tra poche settimane a Voghera inizierà il processo, a due anni dall’avviso di chiusura indagini. Dieci gli indagati, tutti ex dirigenti Fibronit. Il pm Giovanni Benelli
ha modificato il capo d’accusa da disastro colposo a disastro doloso.
Lo stesso reato per cui sono stati condannati, pochi giorni fa, gli ex
proprietari di Eternit. “Omettevano volontariamente di adottare gli
accorgimenti e i presidi organizzativi”, si legge nell’avviso firmato da
Benelli. Non solo: “Omettevano di adottare idonei sistemi per evitare
il propagarsi delle polveri”. Le carte giudiziarie, due anni fa,
individuavano oltre 570 morti sospette. E dal 2010 a oggi sono morte
altre cento persone. L’azienda è fallita, non c’è più traccia della
proprietà. Scarse le possibilità di ottenere risarcimenti importanti per
i soggetti coinvolti. “Ma il nostro obiettivo – dice Mingrino – non
sono i soldi. E’ importante che a Broni si scaccino i fantasmi. E quello
che è accaduto deve essere scritto, nero su bianco, dalla giustizia.
Grazie alla sentenza di Torino, ora anche la legge ammette che l’amianto
uccide”.
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