Ero tornato da poche ore, l’ho visto, per la prima volta, era alto,
bello, forte e odorava di olio e lamiera. Per anni l’ho visto alzarsi
alle quattro del mattino, salire sulla sua bicicletta e scomparire nella
nebbia di Torino, in direzione della Fabbrica. L’ho visto addormentarsi
sul divano, distrutto da ore di lavoro e alienato
dalla produzione di migliaia di pezzi, tutti uguali, imposti dal
cottimo. L’ho visto felice passare il proprio tempo libero con i figli e
la moglie. L’ho visto soffrire, quando mi ha detto che il suo stipendio
non gli permetteva di farmi frequentare l’università. L’ho visto
umiliato, quando gli hanno offerto un aumento di 100 lire per ogni ora
di lavoro.
L’ho visto distrutto, quando a 53 anni, un manager della Fabbrica gli
ha detto che era troppo vecchio per le loro esigenze.
Ho visto manager e industriali chiedere di alzare sempre più l’età
lavorativa, ho visto economisti incitare alla globalizzazione del denaro, ma dimenticare la globalizzazione dei diritti, ho
visto direttori di giornali affermare che gli operai non
esistevano più, ho visto politici chiedere agli operai di fare
sacrifici, per il bene del paese, ho visto sindacalisti dire che la
modernità richiede di tornare indietro. Ma mi è mancata l’aria, quando
lunedì 26 luglio 2010, su “La
Stampa” di Torino, ho letto l’editoriale del professor Mario
Deaglio.
Nell’esposizione del professore, i “diritti dei
lavoratori” diventano “componenti non monetarie della retribuzione”, la
“difesa del posto di lavoro” doveva essere sostituita da una volatile “garanzia
della continuità delle occasioni da lavoro”, ma
soprattutto il lavoratore, i cui salari erano ormai ridotti al minimo,
non necessitava più del “tempo libero in cui spendere quei salari”, ma
doveva solo pensare a soddisfare le maggiori richieste della controparte
(teoria ripetuta dal professor Deaglio a “Radio 24” tra le 17,30 e la
18,00 di martedì 27 luglio 2010).
Pensare che un uomo di cultura, pur con tutte le argomentazioni di
cui è capace, arrivi a sostenere che il tempo libero di un operaio non
abbia alcun valore, perché non è correlato al denaro, mi ha tolto
l’aria. Sono salito sull’auto costruita dagli operai della
Mirafiori di Torino. Sono corso a casa dei miei genitori, l’ho visto per
l’ennesima volta. Era curvo, la labirintite, causata da milioni di
colpi di pressa, lo faceva barcollare, era debole a causa della
cardiopatia. Era mio padre, operaio al reparto presse, per 35 anni, in
cui aveva sacrificato tutto, tranne il tempo libero con la sua famiglia,
quello era gratis. Odorava di dignità.
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